PAO

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Ho scritto questa cosa per gli amici del 114° Corso AUC – Artiglieria a traino meccanico, che ci ha riunito per sempre, dal 17 gennaio 1984.

PAO

Al caporale Bellezza mancava un incisivo superiore, a minare la sintonia col suo cognome. Dispregiativamente identificato come “firmaiolo” – segno, invece, di una disperata mancanza di alternative – il caporale Bellezza viveva il suo momento di gloria comandando il PAO degli allievi ufficiali. Gli stessi che da lì a qualche mese gli avrebbero intimato con modi urbani o invece sbrigativi di pulire i cessi, o spalare la merda di vacca dal sito di sparo. Invece – per ora – comandava lui. Sottoposto comunque a un ufficiale, gli leggevi negli occhi il piacere di mettere sull’attenti questi giovani di belle speranze, qualcuno laureato e tutti diplomati. “Quando mai mi ricapiterà?” – diceva il suo sguardo.
Il picchetto armato ordinario era pura forma, indipendente da ogni sostanza. Una decina di uomini per ogni batteria, armati ed equipaggiati come se dovessero fronteggiare di lì a poco armate bulgare d’invasione, il pericolo che viene da est (il nemico stava sempre a est, all’epoca). Avrebbe forse avuto un minimo senso ai confini nord-orientali della penisola, non ne aveva nessuno a 30 km da Roma e a più di 700 dal più vicino confine. Il PAO non serviva a niente, se non a impedire la libera uscita ai malcapitati di turno e a farli dormire per una volta vestiti, scarponi inclusi. Unico vantaggio, niente fila a mensa, perché il nemico poteva materializzarsi in ogni istante, ed era giusto che il PAO lo fronteggiasse a pancia piena.
Il mio zainetto era pieno da scoppiare, contenendo tutto il necessario – come prescriveva la libretta – per inseguire le orde nemiche fino alla loro patria, e magari più in là, fino alle steppe russe. Mi correggo, quasi tutto il necessario. Si doveva stiparlo di così tanta roba che qualcosa necessariamente restava fuori. Così non mi ero portato spazzolino, dentifricio e rasoio bic, prestigioso set racchiuso in una bustina tattica color cacarella.
E quindi, in base alla legge di Murphy, proprio io fui prescelto per l’ispezione a caso degli zainetti. Timoroso di vedere scoperta la mia grave negligenza, aprii con grande cautela lo zaino, attento a che non scoppiasse per l’immane pressione, e cominciai a dispiegare sul nudo cemento il suo prezioso e bellico contenuto. Mutande, maglioni, passamontagna e guanti (si era in aprile, ma in Siberia – sulle tracce del nemico – fa sempre freddo), crema da scarpe (mai, mai affrontare l’invasore con scarponi impolverati). Dai cinquanta litri dello zaino, produssi sul terreno almeno 3 metri cubi di cianfrusaglia assortita. Ma sapevo di non avere lo spazzolino, il dentifricio e il rasoio. Cominciavo a sudare freddo, perché da lì a poco il mio atto di involontario sabotaggio sarebbe stato scoperto. Cosa mi aspettava? La galera militare, o la radiazione dal corso AUC?
Il caporale Bellezza era nervoso. Un po’ per carattere, un po’ perché forse a dare ordini a dei futuri suoi superiori non si sentiva a proprio agio quanto avrebbe voluto e il suo orgoglio gli suggeriva, un po’ forse perché nella sua semplice mente persino a lui risuonava l’assurdità di tutta quella messinscena. E fu il suo nervosismo, a salvarmi.
Ricordo come fosse oggi che ero ormai giunto agli sgoccioli del contenuto del mio zaino. Il materiale sparso a terra a quel punto copriva un’area sufficiente a mettere in batteria un pezzo pesante da campagna, di quelli col munizionamento da 200, come il “Cicciobello” del mio collega Cutrona. Mancava giusto il contenitore per ago e filo e la carta da cesso, poi avrei dovuto ammettere che non c’era altro.
Quando estrassi (“uscii” – avrebbe detto in quel frangente il meridionalissimo tenente Spataro) quanto si usa per pulirsi il culo, il neanche tanto latente nervosismo del caporale Bellezza e la sua militare urgenza mi salvarono, come una grazia governativa al condannato a morte. <<Basta, basta così!… >> – ruggì Bellezza – <<… va bene, va bene, rimetti tutto dentro>>.
A ricomprimere il tutto a densità da nucleo stellare e ri-stivarlo nello zaino ci impiegai più o meno un’ora, ma fu un’impresa che portai a termine con un perenne sorriso sulle labbra.

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SU DI ME

SONO EDOARDO, NATO A TRIESTE NEL 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. CONTINUA...

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