La scacchiera di fuoco

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[vc_row css_animation=”” row_type=”row” use_row_as_full_screen_section=”no” type=”full_width” angled_section=”no” text_align=”left” background_image_as_pattern=”without_pattern”][vc_column][qode_simple_quote text_title_tag=”h3″ author_title_tag=”h3″ background_color=”rgba(0,0,0,0.1)” simple_quote_text=”A non più di 5-6 anni da quando me l’hanno chiesto, ho completato questo raccontino di cui Titti mi aveva dato solo il titolo e la preghiera di pensarci su. Beh, ho i miei tempi…” quote_symbol_color=”#81d742″][vc_column_text]Attraverso le tapparelle semichiuse, lamelle di sole penetrano la polvere della stanza, tagliando la penombra in segmenti ruvidi.

“Non c’è mai stata storia. Sono stanco. Non doveva abbandonare, poteva ancora pareggiare. Forse. Irkutsk, la sala illuminata dai neon. Tavoli così squallidi, finestre mai lavate dopo la neve, e si era a maggio. Vecchie sedie di abete, legno di poco prezzo. Cigolii continui, rumore che disturba. Non me. Niente mi può disturbare. È tutto scritto in anticipo. Da sempre.  Domani viene a pulire e a portare la spesa. Pegno settimanale. Gli assegni bastano, questo è un fatto: glielo devo riconoscere”.

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«Se dici che sai risolvere ogni problema, risolvi questo, e poi parleremo».

“Hai detto niente! Dove lo trovo, tra oggi e domani, un altro maniaco? Un altro alienato con lo sguardo fisso? Li hanno già raccolti tutti, gli autistici in circolazione. Che cazzo di problema!”

*****

Anche questa settimana è finita. I ragazzi sciamano con diverse prospettive. Undici anni difficili da portare, per lui. E’ brutto, e lo sa. E’ grasso, e sa anche questo. Ma ora che il nonno è volato via, non c’è neppure chi per amore sia disposto a fingere che sia un genio. Perché non è neanche un genio. Nessuna porta aperta e nessuna ragionevole speranza di vedersene aprire. Solo la mamma, e la nonna che non è più la stessa da quando il nonno è morto. Queste le prospettive per il fine settimana.

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Legno che è plastica, e neanche di quella buona. Marmo che è cartone, slabbrato e piegato ai bordi, come orecchie d’asino. Si poteva vivere, in questo modo? No. Solo gli assegni sono buoni: qualcuno evidentemente porta ancora rispetto. Ogni mese, puntualmente, la testimonianza dell’antico rispetto.

“Non hanno mai capito niente, ma non importa. Del resto, era difficile anche per me. Non ho mai capito neanch’io perché tutti si affannassero tanto per un gioco così idiota. Un gioco in cui è impossibile perdere. Eppure ci riuscivano, loro.”

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“Ma sì… uno forse lo conosco! Era bravo, trent’anni fa. Mi hanno detto che l’hanno visto, una volta. Abita sempre lì. E’ matto come un cavallo, ma chi se ne frega. Se riesco a convincerlo, solo per domani, ho svoltato!”

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“La casa della nonna è vuota, senza il nonno. Anche gli occhi della nonna sono vuoti. Lei non riesce a ricordare come me. Le regole, le lezioni sulle regole. Il caffelatte alle cinque, coi biscotti. Quei libri difficili. E le storie del nonno. Di quell’americano pazzo che dava in escandescenze contro tutto e tutti. Di quella volta che aveva gridato al complotto, col russo che se lo guardava pacifico. No, non era russo; era sovietico, non russo. Non il più forte, ma qualcuno lo aveva mai visto perdere? Come Gligoric lo slavo, ma meglio. L’americano lo aveva battuto, a Gligoric. Invece dal russo le aveva prese. Ma non era russo.”

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«Guardi, anzi guarda, non se ne parla proprio. Sono vent’anni che non gioco, ma non è questo. E’ che ho la nausea.
Neanche per un giorno, neanche per una sola partita. Sono stanco e ho la nausea. Qui sto bene, e la luce mi da’ fastidio. E’ buio e c’è polvere, ma domani vengono a pulire e a portarmi la spesa.
Non insista, anzi non insistere».

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“Una sola foto. E il nonno ha strappato la pagina e me l’ha regalata. La didascalia dice GM Stena“.

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“Sala grande e fumosa, piena zeppa di somari autistici. E l’ultimo della serie sono riuscito a portarlo io! Sono un grande, sono un genio! Ora entrerò nel giro vero: affari e soldi e donne, naturalmente. Tante da non sapere dove metterle”.
«Siediti qui e non ti preoccupare: ti ho già iscritto io. Sì, sì: tutto fatto, tutto a posto. Ma rilassati, mica ti mangiano! No, scusa, scherzavo, non ti arrabbiare! E’ solo che mi sembri un po’ troppo nervoso».

“Ma guarda questo! E’ proprio andato di testa! E io devo fargli da balia…”

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«Un torneo? Dove, proprio qui? Ma sei sicura, mamma? Vado, vado, certo che vado!»

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Torneo di infima categoria, più una mossa promozionale per il locale, che altro. Un paio di vecchi maestri in disarmo, qualche “bella speranza” che di suo da anni ha smesso di sperare, una pletora di giovani candidati che sognano il nome in quindicesima pagina.
Torneo internazionale – si chiama. Già: due sloveni, mezzo croato, uno svizzero austriaco che forse è un austriaco svizzero, e pure tre friulani che qui sono come stranieri.
Comunque, torneo internazionale, ufficiale e certificato.

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Con procedura inconsueta, era stato presentato senza la minima credenziale tecnica da un influente membro del Comitato Centrale, cui non era in alcun modo possibile dire di no. Gli fu attribuito d’ufficio il grado di Maestro, perché di suo non aveva alcuna qualifica. Ma, passati i primi sbuffi di insofferenza, si capì presto che alla Federazione era stato fatto un gran bel regalo; dopo un anno di tornei giocati, qualcuno ai piani alti si era accorto che quel parvenue  aveva un record strano: non vinceva spesso, ma non perdeva mai. Poteva essere impiegato nelle competizioni a squadre, in prima o seconda scacchiera, in modo da massimizzare l’utilità della sua inconsueta caratteristica. I risultati furono superiori alle attese: continuava a non perdere e qualche volta – contro avversari indispettiti e ostinati – vinceva.
Tra i giocatori – e non solo i più forti – c’era chi lo disprezzava, perché sembrava affrontare le partite con l’unico obiettivo di uscirne indenne, pareggiando sia col nero che col bianco. Dicevano che pensava con la paura dentro, gettava via posizioni vinte, non vedeva le continuazioni più promettenti, non era capace di spunti brillanti.
C’erano però anche quelli che lo rispettavano, soprattutto per come sembrava guidato da un sesto senso che gli permetteva di confutare ogni tipo di trappola, per quanto sottile e nascosta. E’ vero che poi spesso non sfruttava il vantaggio, evitando di infierire sull’avversario sbilanciato da una combinazione troppo audace, ma si salvava sempre.
I denigratori lo chiamavano “il cretino sapiente”, gli altri non sapevano come chiamarlo. L’aspetto che irritava un po’ tutti è che non giocava piegato sulla scacchiera, ma appoggiato a gambe incrociate sullo schienale della sedia, come fosse lì per caso. Si guardava in giro, distratto, sempre in attesa che l’avversario muovesse. Non impiegava mai più di tre minuti per effettuare una mossa. Davvero irritante, molto arrogante.
Intanto, però, la sua continua presenza in tornei a squadre e individuali di alto livello gli avevano procurato la nomina a Maestro Internazionale. Non perdendo mai, il suo punteggio cresceva anche senza che si classificasse tra i primi.
Dopo altri tre anni costellati da moltissime patte, poche vittorie e sempre nessuna sconfitta, i capi della Federazione richiesero uno studio tecnico sul suo stile di gioco. Furono convocati Grandi Maestri, psicologi e psichiatri, cui fu messo a capo Krogius, lui stesso psicologo.
Il responso dello studio su più di 200 partite confermò le impressioni di tutti, sia di quelli che lo chiamavano “il cretino” che dei suoi colleghi più rispettosi. Krogius in persona espresse il proprio parere nelle conclusioni del lavoro. Disse che questo stranissimo giocatore sembrava adattarsi al “piano minimo di massima sicurezza” che la situazione sulla scacchiera richiedeva. Cioè non coglieva le opportunità, anche quando evidenti, ma identificava immediatamente – in modo quasi soprannaturale – le minacce.
La Federazione non era ancora soddisfatta: ordinò che un gruppo di Grandi Maestri preparasse un certo numero “di trappole scacchistiche”, di cui solo loro avevano analizzato insieme le continuazioni perdenti e quelle vincenti.
Il test diede risultati sorprendenti, oppure scontati, a seconda del punto di vista. Evitò tutte le trappole, e in tempi di riflessione prodigiosamente brevi. Questo exploit gli valse un nuovo soprannome, subito adottato da tutto l’ambiente dei giocatori professionisti: Muro. Il termine conteneva sia valenze positive che negative: da un lato connotava l’impossibilità di essere superato, scavalcato, sconfitto; dall’altro suggeriva una stolida mancanza di fantasia.
In ogni caso, la situazione di un giocatore da quattro anni impegnato ad alti e a volte altissimi livelli e mai battuto non aveva precedenti. Fu perciò deciso di sottoporre Muro a un ultimo test: sei partite contro l’attuale campione del mondo, Botvinnik. Finì come oramai tutti si aspettavano: con sei pareggi.
A questo punto nessuno riteneva più che “Muro” fosse un dispregiativo e i detrattori si dispersero rapidamente.
Nei tornei cui Muro partecipava, gli avversari si dividevano in due categorie, fortemente sbilanciate nel numero. La maggior parte di loro si accingeva a una partita tranquilla e che avrebbe condotto alla patta, priva di ogni possibile alzata d’ingegno che potesse ritorcersi come un boomerang. Un ristretto drappello di “sfidanti” provava invece a vedere se magari a loro sarebbe riuscito il colpo mancato a Botvinnik: sconfiggere Muro almeno una volta, con un gioco aggressivo. Costoro qualche volta riuscivano a strappare un rocambolesco pareggio, ma il più delle volte ne uscivano sconfitti. Quello fu il periodo in cui Muro vide crescere più in fretta il proprio punteggio, il che lo portò in un altro paio d’anni alla nomina a Grande Maestro.
Contemporaneamente, gli osservatori si accorsero che anche chi cercava di non “stuzzicare il can che dorme” trovava sempre più difficoltà a conquistarsi una patta: evidentemente Muro aveva affinato il proprio gioco di rimessa e perdonava sempre meno facilmente l’inerzia del contendente del momento. Spesso giocava le mosse stando in piedi, quasi gli avversari non meritassero la sua concentrazione, riuscendo senz’altro a innervosirli.
Divenne uno dei primi 20 giocatori dell’Unione Sovietica e tra i primi 40 al mondo. Erano ormai otto anni, dal suo primo affacciarsi alla ribalta scacchistica, che non aveva ancora perso una partita.
Nei tornei a squadre giocava ormai sempre in prima scacchiera, anche quando tra i compagni c’erano giocatori con un rating superiore o persino il campione del mondo (ora, l’armeno Petrosian).
Tuttavia, Muro non sembrava in grado di accedere agli ultimi gradini che lo avrebbero portato a diventare lo sfidante ufficiale: non riuscì mai a partecipare al Torneo dei Candidati e anche ai tornei Inter-Zonali prese parte solo una volta, finendo a mezza classifica.
Era un oggetto difficile da gestire: non sarebbe diventato una vera stella, ma nessuna di queste aveva mai potuto segnare un punto intero, contro di lui. Per la verità, la sua presenza attirava molti curiosi: non per il suo gioco piatto e poco interessante, ma perché tutti avrebbero voluto poter dire “c’ero anch’io” alla sua prima sconfitta. Per proprio conto, lui non sembrava particolarmente ambizioso, né tantomeno infastidito dalla sua placida navigazione di cabotaggio.
Dopo pochi altri anni, però, i suoi risultati peggiorarono notevolmente. I suoi avversari avevano iniziato a giocare senza prendersi alcun rischio e le partite finivano invariabilmente in parità. Sempre imbattuto, scivolò oltre la 50sima posizione nella graduatoria.
Nell’ultimo torneo cui prese parte – non particolarmente prestigioso e alla periferia dell’Impero –  pareggiò tutte le partite, suscitando un clamore ormai lieve perché due di esse le avrebbe vinte anche un giocatore di secondo piano: sembrava proprio che non riuscisse più a trovare la strada per la vittoria.
Poco dopo, di lui si persero le tracce e l’agone scacchistico proseguì sul proprio sentiero, fatto di frequenti e brillanti vittorie dei suoi eroi e di occasionali cadute dei medesimi. Il Muro non era crollato, ma si era semplicemente dissolto, tanto silenziosamente così come era a suo tempo apparso.

*****

“C’è troppo fumo e rumore. Perché mi hanno portato qui? Ah, ma guarda che bei pezzi! Sono degli Staunton perfetti, con la testa degli alfieri sottile, proprio come piace a me.
Questo tizio qui davanti vuole che giochi con lui, credo. Ma chi è? Chi l’ha mandato? Come si chiama? Non farà mica sul serio? Guarda che bel cavallo, con le sue venature laterali. Chissà cosa rappresentano. Ma sono addirittura laccati, lucidi! Se mi abbasso con gli occhi al livello del tavolo, sembrano proprio due eserciti prima della battaglia…”

*****

«No, direttore, non si preoccupi! Mi dia cinque minuti, che lo convinco! No, la prego: lo so che sta toccando i pezzi e non si deve, ma mi capisca un attimo…
Direttore, la prego! Se lo squalifica, lei mi rovina!»

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“Ma chi è poi questo che mi grida nelle orecchie? Che vuole? Lo conosco? Forse. Perché non mi lascia in pace? Che se ne vada, come l’altro che voleva che giocassi con lui”.

*****

“Ma….ma….non è possibile! Ha i capelli bianchi, la faccia più grassa…Ma è lui! È proprio lui, ne sono sicuro!”

*****

“E chi è quel ragazzino che mi fissa? Cosa vogliono tutti, da me? “.
«Vieni qui, ragazzino! Che hai da guardare? Vuoi giocare? Allora siediti e gioca, per dio! Non startene lì come un cretino! Prendi il bianco e muovi».
….
«Muovi, ti ho detto! Ah, vuoi fare questo con me? Ma sei sicuro?»
….
«Che razza di mossa è questa? È tutto sbagliato! Non si fa così! Solo gli idioti muovono in ‘sto modo! Come ti permetti di giocare questa stupida variante con me?
Questo cavallo va qui o qui, non dove l’hai messo tu! Se vuoi puoi provare la variante Panov, ma è una fesseria, con me! Ma tu neanche sai cos’è, la Panov…
Guarda: ti faccio vedere perché no. Metti lì quel pedone, ma se speri che te lo prenda, sei un fesso. Con la Panov bisogna far finta di niente, lasciare che il bianco si cuocia da solo».

*****

“Sono io. Sono seduto davanti a lui. Perché lo so chi è, anche se è più vecchio. E gli sto seduto davanti. Mi parla, proprio a me. Non pensavo parlasse così. Credevo fosse calmo. Mi fa paura. Grida. Perché grida? Non devo mettermi a piangere, perché ce l’ho proprio davanti: Io!
Nonno! Nonno! … ci dovevi essere anche tu, adesso!”

*****

«Hai capito, ragazzo? Devi stare attento alla colonna f. Come, qual è! Questa qui, questa qui! Non usare lo stonewall, che è una stupidaggine! Perdono tutti, con lo stonewall. È una trappola. Chi ci provava, gli andava bene se riusciva a pareggiare. È una presunzione, aprire l’arrocco».

*****
La sala oramai è semideserta: il primo turno è finito e ci si rivede domani. Soli, vicino alla grande finestra sulla strada, un vecchio che parla da solo e un ragazzino di 11 anni che non comprende una sola parola.
L’uomo con i capelli bianchi a un tratto si interrompe; rimane a fissare la scacchiera e i riflessi che questa gli rimanda agli occhi.
Poi tende una mano…

*****

… «Bravo, ragazzo. Credo tu abbia capito. Non è difficile, ma bisogna che stai sempre attento. Non ti scoprire mai!
Ora vattene, ‘ché sono stanco e voglio tornare a casa».

*****

Il ragazzo troppo grasso per i suoi undici anni stringe quella mano e obbedisce.
Fuori, nel sole del pomeriggio, si ricorda solo di essere riuscito a sussurrare un “grazie”. Ma il vecchio probabilmente non lo ha nemmeno sentito, perché i suoi occhi erano inchiodati sulle caselle, come se queste si fossero animate dopo un sonno di decenni. Il ragazzo ha quasi avuto l’impressione che le pupille del vecchio mandassero dei riflessi dorati. No, non dorati: rossi, come se la scacchiera bruciasse.
Non si può giocare, su una scacchiera di fuoco.

*****

Strada verso casa, la stessa dell’andata, ma mai più uguale. Passi veloci di un milziade obeso, in odore di squalifica. Lei è sul pianerottolo: suo figlio ha suonato in un modo insolito, prolungato. Non era un suono allarmante: quasi una sfumatura di allegria. Sciocchezze! Come può un campanello avere sfumature?
Ma quando lo ha di fronte, vede uno sguardo che non gli riconosce, euforico e titubante. Lui indugia, poi le salta al collo in un abbraccio strettissimo. Prima che si sciolga e scappi dentro trascinandosi tutta la sua goffaggine, le arrivano le sue poche, misteriose parole….

*****

… «Mamma! Stena è tornato!»

*****

C’era un uomo, una volta, una sola volta in tutta la storia di questa strana Arte, che giocava su una scacchiera di fuoco. Le caselle avvampavano nella sua mente, rosse come per incanto, e gli dicevano cosa fare.

*****

In russo, “muro” si dice stena.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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