Educazione marziale

E

Discutevo con il mio Maestro di wing chun circa le motivazioni alla disciplina marziale (detta così, suona un po’ roboante – diciamo “a menarsi in palestra secondo un determinato stile”) e dall’alto della sua esperienza mi ha detto: «C’è chi dice di voler approfondire la tradizione, chi il coordinamento corporeo, chi le filosofie orientali, chi è rimasto folgorato dai film di Bruce Lee; va tutto bene, ma la ragione di base è la ricerca di una maggior sicurezza nel difendersi».
Ci ho pensato un po’ e ho concluso che alle diverse età gli stimoli possono cambiare. Io ho iniziato judo a 7 anni non per paura di essere aggredito, ma per avere qualcosa in più degli altri. Il motore non era quindi il timore, ma il desiderio di uno strumento per prevalere. In più c’era il fascino esotico di una tenuta peculiare, da iniziati: il gi e la cintura.
A 20 anni ho cominciato karate per ragioni simili, cui senz’altro si era nel frattempo aggiunta la consapevolezza di non essere invulnerabile (that is: c’è qualcuno più forte di me, in grado di menarmi) e anche di integrare una preparazione fisica generale con qualcosa di più operativo, cioè la cui finalità non fosse semplicemente ingrossarmi di muscoli per ragioni estetiche (pesi) o vincere in un contesto sportivo (canottaggio). Direi quindi che le motivazioni dei 7 anni si erano col tempo integrate.
Indubbiamente credevo che il karate fosse la risposta definitiva a ogni possibile problema di difesa personale ma, di nuovo e come a 7 anni, non era tanto in senso passivo (aiuto! mi aggrediscono!) quando attivo (posso aggredirti). C’erano due tipi di ingenuità, nel mio atteggiamento. Da un lato l’idea che esistesse una metodica, un’arte, un qualunque sistema in grado di rendere invulnerabili (passivo) e pericolosi (attivo), dall’altro che quest’arte fosse il karate.
Crescendo, ho visto in giro gente che mena veramente: sia quelli delle MMA (in particolare i lottatori) che gli “artisti di strada” (rissaioli). Non avevo più lo scudo dell’illusione infantile che ti fa sentire onnipotente né di quella adolescenziale che ti fa credere che basti saper scegliere cosa praticare. C’è un sacco di gente pericolosa, che è meglio evitare a tutti i costi.
Ma quando ho iniziato il wing chun, di nuovo la mia motivazione prevalente non era l’autodifesa da timore, bensì una sorta di senso di vuoto/incompletezza, la stessa che prenderebbe un mongolo di Gengis Khan che non sa andare a cavallo.
Io penso ci siano delle attività connaturate all’essere umano. Una di queste è procurarsi il cibo, un’altra è saper usare le mani (e/o i piedi). Un uomo che non sappia minimamente combattere – anche male – è incompleto, è meno umano. Esattamente allo stesso modo in cui trovo inconcepibile non praticare un’attività intellettuale specifica (che sia giocare a Ruzzle, a bridge, esercitare la sofistica…).
Non si tratta quindi di motivazioni di difesa o prevalenza rispetto ai pericoli dell’ambito sociale, bensì di necessità di completezza. Da questo punto di vista, l’ultimo pippone è stimabile quanto il campione mondiale di botte senza regole. Si fa perché è parte dell’Essere.
Intendiamoci, le arti marziali non sono l’unico modo di allenarsi alla guerra. Praticamente tutti gli sport – non solo quelli dichiaratamente aggressivi come il rugby o l’hockey su ghiaccio ma anche il calcio o il tennis – preparano alla guerra. Però è indubbio che le arti marziali in ciò siano più dirette.  Per questo le trovo necessarie alla formazione e le renderei obbligatorie nella scuola, proprio come farei per gli scacchi. Senza esagerare, senza voler per forza ottenere dei campioni, ma semplicemente per sviluppare oltre il mero stadio di idea degli istinti che ci appartengono come esseri umani.
In mio figlio vedo le stesse cose che vedevo in me. Si allena coi pesi per “essere più bello”, fa sei mesi l’anno di piscina perché il nuoto allena armonicamente tutto l’apparato muscolare, fa gli altri sei mesi di kick boxing perché… Chissà: magari a 54 anni si appassionerà come me alla biodinamica, e penserà “meno male che la posso coltivare menando le mani”.

2 comments

  • E’ stato Ivan Brussato a spingermi verso il karate. Eravamo al II anno di liceo e lui praticava da qualche mese, non ricordo se cintura gialla o arancione.
    Sicuramente, anche se ora è tutto sfumato e vago, ero effettivamente spinto dal desiderio, dalla necessità quasi, di “sapermi difendere”.
    Questo fatto ora mi brucia un po’ perchè mi mette sullo stesso piano di quelli che si comprano la pistola, per poi spararsi sui piedi, oppure mi assimila a quei trucidi che girano col pitbull e strappano sorrisi di compatimento.
    Sottesa una paura latente, mascherata dal mio atteggiamento di allora, fondamentale, pareva a me, per dare l’immagine che tu ricordi: un fighetto arrogante. Ho impiegato almeno 35 anni per liberarmene.
    Ho impiegato molto meno per capire che, anche minacciato, mi sarebbe stato quasi impossibile colpire qualcuno, sono (fortunatamente) fatto così. Ciò non toglie che di fronte ai prepotenti non faccio passi indietro e sarà perchè non sono proprio un tappo, sarà per la testa grossa con pelata da nazi e pure per l’atteggiamento provocatorio di scherno che fa nuovamente capolino, unito a un discreto zanshin, la scaramuccia termina a parole così com’era iniziata. La faccenda è grave perchè in caso di bisogno mi troverei in grave difficoltà, avversando visceralmente la violenza.
    Piccola parentesi, forse rivelatrice: non riesco più a guardare film che raccontano efferatezze realmente accadute, al contrario mi diverto con alcuni film d’azione o horror con profusione di pugni in faccia, sforacchiamenti, corpi fatti a pezzi, e sangue a fiumi.
    Da molto tempo l’allenamento è fine a sè stesso, scena e palco di una rappresentazione, consapevolezza del corpo nelle quattro dimensioni, parziale antiruggine, e come tutti gli sport di squadra, ritrovo periodico, quindi rassicurante, di un gruppo di amici. Mi diverte pensare anche che la palestra di arti marziali sia il posto giusto per urlare. Lì è normale, se lo fai per strada sei passibile di trattamento sanitario obbligatorio.
    Insomma, l’esigenza di difesa è ancora presente, ma di molto sopita.
    L’idea di attacco, seppur preventivo, mi è veramente del tutto estranea anche se la frustrazione ogni tanto mi fa sognare di essere il Paul Tibbets degli uomini di cattiva volontà: premi un pulsante e….infantile no?
    Comunque è vero: ci sono persone che hanno talento per menare e nelle palestre di karate (quelle ho frequentato) ho incontrati maestri che avevano tutte le carte per risultare letali, per il semplice fatto che facevano male (da ko) anche solo difendendo.
    Sono appunto talenti, dieci vite in palestra non sarebbero sufficienti (per me) per salire al loro livello, ma in fondo e per fortuna, non è così importante. Ho altre priorità.

  • Io non mi ricordo un “fighetto arrogante”. Me ne ricordo uno a volte strafottente, spesso annoiato, sempre pronto a buttarla in casino e a divertirsi.
    Arrogante, mai.
    Ricordati che gli occhi vedono e le orecchie sentono, ma poi a elaborare è il cervello.
    🙂

SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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