L’Altalena (cap.8 “Altalene” -1)

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Cap. 8 – Altalene

Quando mi svegliai era mattina presto. Aprii gli occhi di botto, per controllare immediatamente ciò che non avevo potuto controllare mentre dormivo. L’Altalena era ancora lì, alla stessa distanza cui l’avevo lasciata sotto i raggi della luna: sembrava proprio non si fosse mossa. Buon segno. Mi alzai, per sgranchirmi e per dimostrarle che avevo tutto il diritto di farlo. Avrei voluto un caffè, più per rito che per effettivo desiderio, ma mi dovetti accontentare di una bella sorsata d’acqua fresca. Quando mi sentii a posto e tranquillo per quanto potevo essere, mi avvicinai a Velikie Kacheli.

Non ero più stanco, non ero più frastornato, non potevo dire di non essere intimorito. Ora che il cervello si era svuotato delle tossine, mi tornava alla memoria tutto quello che avevo sentito su quel prodigio. Si diceva che quell’Altalena segnasse il tempo del Mondo. Almeno sette persone erano state pronte a giurare che non si comportava come tutte le altalene. Un detto ormai dimenticato suggeriva di guardarla, quando non si era più sicuri di niente. Io la stavo guardando. Il seggiolino era immobile, e questo non era strano: non c’era vento, non c’era mai stato da quando ero arrivato lì, e una tonnellata di ferro lo aiutava nel compito di starsene bello fermo. Cinque metri sopra la mia testa, quel seggiolino aspettava che qualcuno lo muovesse, o almeno ci provasse. Non c’erano funi, non c’erano scale per arrivarci. Un bel problema.

Sorrisi, pensando ai venti metri di corda da scalatori che tenevo in mano.

Non avevo fretta, non aveva senso averne. C’erano molti modi per salire, e scelsi il più sicuro e comodo, se non il più facile. Legati un paio di moschettoni ad un’estremità della corda, la lanciai nello specchio tra le aste, agganciandone una. Passai quindi la corda doppia nel discensore a molla, e me la legai alla coscia destra vicino al ginocchio. Avevo lasciato la corda molto corta: aprendo semplicemente la gamba, avrei recuperato, bloccando al contempo la corda stessa. Quindi agganciai la maniglia su uno dei capi sopra di me. Così sarei salito in maniera poco ortodossa, facendo in realtà a ogni tirata metà del percorso fatto fare alla maniglia. Sarei salito anche un po’ storto e inclinato, ma piano piano l’asola, che ora era lunga poco meno di cinque metri, si sarebbe progressivamente ridotta. In un paio di minuti raggiunsi il seggiolino, cui il mio peso non sembrava aver impresso alcun effetto di movimento. Mi issai e mi sedetti su quel legno antico. Avevo i brividi, e non di freddo. Spesi un altro po’ di tempo nell’assicurarmi alle aste, così da non poter cadere in nessun caso (il rischio a questo punto era di prendermi eventualmente una testata sul seggiolino, se qualcosa fosse andato storto). Ero a tutti gli effetti seduto sulla Grande Altalena.

Non avevo mai sofferto di vertigini, ma ora le avevo. Ero rivolto verso nord, dove c’era solo deserto. A est, le montagne. A ovest, altro nudo deserto. Cinque metri sotto di me, sul terreno le ombre si stavano facendo consistenti, ora che il sole era più alto. Strano: come il giorno prima, il tempo stava passando più velocemente di quanto credessi.

In ogni giardino pubblico, tra i bambini vige una regola non detta e non scritta: se sei sull’altalena ci devi andare, altrimenti scendi e lasci il posto a un altro. Stare fermi non vale. Immobile sul seggiolino immobile, provavo la medesima sensazione di stare facendo qualcosa di sbagliato. Ero fermo, non valeva, dovevo muovermi. Avviare senza toccare terra un’altalena di una tonnellata e con le aste lunghe cinquantacinque metri può essere un problema, come capii subito. E’ per questo che le altalene ad asta hanno il seggiolino snodato: per imprimere ad esso le prime oscillazioni. Cominciai a dondolarmi, e il seggiolino si mosse sui propri perni. Ma dopo più di cinque minuti di sforzi continui, le aste sembravano ancora perfettamente immobili. C’era qualcosa di sbagliato nel mio stile, ma non sapevo cosa. Riprovai, col medesimo risultato. Provai ancora: niente. Ero esausto, e a parte far ruotare su se stessa e cigolare la sedia, non avevo prodotto il minimo movimento. Ero furioso. Avevo speso quattro anni, totalizzato trentamila chilometri di viaggi, rischiato la vita da meno di ventiquattr’ore, per stare su un’altalena che non riuscivo a far partire.

Cercai di calmarmi e di riflettere. Non era affatto strano che l’Altalena non si muovesse. Le aste erano troppo lunghe e troppo pesanti perché la rotazione del seggiolino sortisse un qualche effetto. Pensai alla meccanica del movimento. Alzando le gambe in avanti, il seggiolino si inclinava, spostando il mio peso all’indietro. La forza che imprimevo si poteva scomporre in due componenti perpendicolari l’una all’altra. La prima era verso terra, e veniva neutralizzata dalle aste. La seconda era in avanti, ed era quella che doveva avviare il moto. Avevo spinto le gambe e quindi fatto ruotare il seggiolino con tutte le mie forze, ma questa seconda e fondamentale componente non sembrava bastare. Perché? Le aste erano troppo lunghe, le aste erano troppo lunghe, le aste….cosa voleva dire che erano troppo lunghe? Beh! Che il fulcro, unico vero regista del moto del pendolo, era troppo lontano. In un esperimento ideale, senza attriti, l’altalena si sarebbe messa in moto immediatamente, al minimo tocco. Ma qui c’erano diverse resistenze, prima tra queste quella degli snodi a più di cinquanta metri sopra di me. A rendere vani i miei sforzi doveva essere l’attrito degli snodi superiori. Che potevo fare? Continuai a pensare alle differenze tra un esperimento ideale e le condizioni reali in cui mi trovavo. Nel mio caso, il moto si sarebbe dovuto trasmettere attraverso le aste, fino al fulcro. Ma o era troppo debole, o non arrivava. C’era qualcosa, in entrambi questi concetti, che aveva un punto in comune. Qualcosa sulla trasmissione della forza, che o non c’era, o era troppo debole. La trasmissione della forza…la trasmissione…la forza…Ci stavo arrivando…Ci arrivai.

Se la forza era troppo debole, bisognava aumentarla. Se non si trasmetteva, era perché le aste – così lunghe – portavano al fulcro dei segnali di segno opposto: fase e controfase, in successione. Quindi l’asta non faceva in tempo a mettersi in moto in un senso, che subito riceveva un impulso di segno opposto. Vibrava (almeno internamente), ma non andava né avanti né indietro. Dovevo eliminare la controfase. E dovevo sperare che l’attrito del fulcro non fosse così forte da smorzare una serie di impulsi successivi, tutti in fase. Come potevo farlo, in pratica?

Esisteva un solo modo di trasmettere una serie di impulsi sincroni al fulcro: picchiare sulle aste. Perché l’Altalena mi mostrasse il tempo del Mondo, dovevo prima dargliene io uno. Lei mi avrebbe mostrato il tempo, io le avrei dato il ritmo.

Mi asciugai il sudore, soprattutto quello sulle mani. Secondo il mio orologio, ero sull’Altalena da un’ora. Era del tutto impossibile: appena adesso avevo terminato di fare il terzo tentativo di spinta sul seggiolino, e ognuno di essi non era durato più di qualche minuto. Come poteva essere trascorsa un’ora? Eppure, sia l’orologio digitale che il telefono satellitare dicevano che a sbagliarmi ero io. Era la terza volta che mi capitava, da quando ero arrivato nei pressi del simulacro. Se fosse successo ancora, avrei veramente cominciato a credere che lì il tempo funzionava diversamente.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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