L’Altalena (cap.5 -3)

L

Tre giorni dopo quella sera, arrivai a Turgaj.

Il saluto con Dino, che aveva insistito per accompagnarmi abbandonando temporaneamente i suoi gelosi protetti, fu particolare. Di tutti coloro con cui avevo condiviso qualcosa del capitolo dell’altalena, lui era l’unico che appartenesse alla mia ristretta cerchia di amici. Per giunta, dei migliori. Egli era l’unico legame tra la mia vita di sempre e questa strana avventura. Lui poteva capire non solo i miei perché contingenti, ma anche quelli profondi, e me l’aveva dimostrato alle porte di Aralsk. Salutarlo significava dovermi mascherare nuovamente, per rendere plausibile agli altri quanto stavo facendo, e di cui io stesso faticavo a essere convinto.

Quando girò la Land Rover, mi sentii di nuovo profondamente solo. La consolazione – non piccola – era che con lui restava qualcosa della mia folle idea, che aveva accettato incondizionatamente, come ci si aspetta facciano gli amici nei confronti dei nostri comportamenti più balzani.

Ahmanov mi accolse amichevolmente, ma non mi nascose il suo scetticismo. Non potevo dargli torto. La conversazione con Dino mi aveva turbato, perché dopo le sue domande me ne ero fatte anch’io, anche di genere pratico; tanto per cominciare: e se l’altalena – ammesso esistesse – fosse stata al coperto? Potevo visitare tutti i capannoni o gli edifici del Kazakstan occidentale in grado di ospitarla, chiedendo ogni volta il permesso di entrare? Le conoscenze a mia disposizione erano troppo scarse per sapere dove cercare, e non sapevo neanche a chi chiedere.

La mia idea era di andare con Ahmanov in uno dei villaggi dei pastori, e lì “domandare in giro”. Un po’ poco, come piano strategico di una spedizione che mi era costata svariate decine di migliaia di euro (anche se dal dipartimento di Larson avevo ricevuto un contributo di seimila sterline), ma non avevo di meglio.

Così, visibilmente a malincuore, Ahmanov organizzò un viaggio verso uno dei due villaggi non ancora disabitati che una volta erano stati la base degli uomini di Akundjanov. Avremmo dormito dove capitava, perché solo per arrivare ci voleva mezza giornata d’auto.

Attraversammo immense pianure semidesertiche, dove non si capiva perché mai a qualcuno dovesse venire l’idea di viverci. E perlopiù era proprio così: non c’era nessuno.

Un pomeriggio tardi arrivammo alla nostra prima meta. Ahmanov chiese delle famiglie dei pastori, in base ai nomi riportati nell’articolo di Akundjanov. I locali facevano fatica a capire cosa volessimo, e si mostravano comprensibilmente sospettosi nei nostri confronti. Era soprattutto la mia presenza – credo – a metterli a disagio: che ci faceva un occidentale in un villaggio sperduto e semiabbandonato della steppa kazaka? Che voleva, dai pastori? La restituzione di un prestito?

Passammo la prima notte ospiti di un gentile contadino, che ci mise a disposizione l’atrio della sua spaziosa dimora. Ahmanov ormai non era solo scettico, era quasi scocciato. Si vedeva benissimo che stava facendo tutto questo solo per i soldi promessigli da Wolverhampton. Il suo nervosismo innervosiva anche me, che non avevo certo bisogno di stimoli per chiedermi che diavolo stavo combinando.

L’indomani mattina, però, era una bella giornata di giugno. Gli abitanti, comunque incuriositi, si mostrarono più amichevoli, e in un’ora circa raccogliemmo un’indicazione forse utile: nel villaggio viveva una vecchia che aveva un parente con un cognome che corrispondeva ad uno della lista di Akundjanov. Non che significasse molto, ma era meglio di niente.

La contadina disse di avere sessantacinque anni, ma ne dimostrava almeno dieci di più. Però era gentile e – anche lei – curiosa. La nipote, di tredici o quattordici anni, era bellissima. Ci preparò il the, mentre la nonna si faceva raccontare da noi la storia. O, meglio, la parte della storia che avevamo deciso di raccontarle. Era una versione semplice ed essenziale dei fatti: cercavamo i testimoni di un esperimento scientifico condotto trent’anni prima.

Ahmanov parlava in russo, perché anch’io potessi capire qualcosa, ma la vecchia spesso passava al kazako, e io mi trovavo spiazzato. Passai così un’ora a sorridere di circostanza ogni volta che la contadina, parlando, mi guardava. Ahmanov, da un certo punto in poi, non si diede più la pena di tradurmi nulla. L’unico segno positivo era che continuava a fare domande, e le risposte che riceveva sembravano incoraggiarlo a farne di nuove. Evidentemente, qualcosa si stavano pur dicendo…

Al momento del secondo the, mi riassunse la situazione. A quanto pareva, un cugino del defunto marito della signora era uno dei pastori di Akundjanov. Molti anni prima il parente aveva effettivamente raccontato, anche alla presenza della signora, di un paio di viaggi fatti ad Akademgorodok; lei se ne ricordava perché il parente se ne era comprensibilmente vantato. Era diventato una mezza celebrità, nel villaggio. La signora non sapeva come avesse conosciuto il professore. E dov’era, adesso, questo cugino? Era morto anche lui? Sì, aveva risposto lei, era morto. Anzi no, non era proprio morto. Insomma, non lo sapeva, se fosse morto o no: in realtà era scomparso.

Scomparso! Come, dove, quando? Vediamo, se se lo ricordava bene…doveva essere…sì, il 1975, più o meno. Come e dove erano domande senza senso, quando uno scompare, giusto? Giusto. Ma se il “più o meno” poteva essere più “più” che “meno”, l’uomo di Akundjanov era scomparso nello stesso periodo del professore. E questo, per me, era troppo. Quanti altri “fisici sperimentali” che viaggiavano tra il Turgaj e Akademgorodok erano spariti, intorno al 1976? Non c’era modo di saperlo. Ma forse sì! Nell’Unione Sovietica tutto poteva accadere, ma nulla che non venisse debitamente registrato.

Mi attaccai seduta stante al satellitare, tirando giù dal letto il buon Larson. Gli davo tre giorni di tempo per rifare “il giro delle anagrafi” che avevamo già fatto per Akundjanov, e che alla fine mi aveva portato a Irkutzk, a incontrare Kvitko.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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