L’Altalena (cap.3 -3)

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A questo punto, fu il compassato Larson ad avere un’idea, che col senno di poi si rivelò la classica trovata da un milione di dollari. Sorprendendomi per il suo spirito di iniziativa, tanto più inatteso in quanto proveniente da un sociologo, egli mi propose di scrivere noi una specie di articolo/racconto. Al mio iniziale stupore, ribatté che spesso un articolo sapientemente elaborato e – soprattutto – ben intitolato era in grado di calamitare più informazioni di quante esso stesso ne contenesse. In giro per le accademie c’era sempre qualcuno che aveva da aggiungere la sua, e non di rado si trattava di elementi preziosi per il proseguimento della ricerca. Mi convinse: naturalmente l’articolo doveva essere pubblicato anche sul web.

Discutendo qualche giorno dopo dei dettagli tecnici dell’opera, convenimmo che sarebbe stato saggio fornire al lavoro un taglio il meno tecnico possibile, trascurando volutamente di menzionare le strampalate conclusioni di Akundjanov sul comportamento dell’altalena: sarebbe stato davvero troppo per chiunque, anche per un sociologo con le spalle più larghe di quanto sembrasse. D’altro canto – sottolineò pragmaticamente Larson – pubblicando un lavoro, anche se “leggero” nello stile e nelle pretese scientifiche, avremmo ottenuto entrambi più di quanto avevamo in quel momento, che era niente: lui avrebbe messo in saccoccia un’altra pubblicazione, io avrei goduto imperituramente della soddisfazione di vedere la mia firma in calce ad uno studio di un’università nota nel settore.

Quindi così facemmo e il risultato – se non poteva dar conto delle mie personali peripezie – rispecchiava comunque piuttosto fedelmente il percorso logico e cronologico dell’intera vicenda. Naturalmente non iniziava con una notizia appresa ad una festa di periferia, ma introduceva l’argomento con dotte disquisizioni sul significato simbolico di oggetti di uso quasi quotidiano nell’ambito della ritualità religiosa di popolazioni primitive (dove il termine “primitive”, nell’articolo, ovviamente non fu mai usato).

Avevo così avuto il mio piccolo rimborso spese, di carattere strettamente morale, e il mio nome non era più del tutto sconosciuto in qualche stanza di Wolverhampton. Che fosse l’inizio di una brillante carriera accademica? No, grazie: la fine di Akundjanov mi era sufficientemente di monito, a riguardo.

Ma Larson aveva avuto ragione in tutto e per tutto: in aggiunta ad un sacco di stronzate pervenuteci via e-mail da suoi colleghi più o meno eruditi e sparsi per il mondo, in cui in genere si plaudeva all’originalità della nostra linea di ricerca, ci giunsero anche notizie di “avvistamenti” della famosa altalena.

Inutile specificare che di avvistamenti veri e propri non si trattava: con la sua più che probabile inesistenza, l’altalena si era messa sin dall’inizio al riparo da sguardi indiscreti. Erano invece, per solito, conferme indirette che l’altalena suscitava o, meglio, in passato aveva suscitato una certa attenzione in un’area geografica piuttosto vasta, che non a caso sembrava coincidere con gli stanziamenti territoriali di popolazioni animiste. Grosso modo, le zone in cui si trovavano tracce degli antichi fasti dell’altalena comprendevano parti del Kazakstan, dell’Usbekistan, del Turkmenistan. Un’e-mail ci giunse persino dalla Russia caucasica, dove il Mar Caspio fornisce un confine naturale ai già citati Paesi, oltre che all’Azerbaijan e all’Iran.

Tale diffusione – sia pure sporadica – del mito dell’altalena, testimoniato essenzialmente da modi di dire in disuso di cui qualcuno dei nostri interlocutori aveva sentito vaga traccia, non aiutava in alcun modo a definire un luogo fisico per la collocazione del manufatto. In questo però noi credevamo di saperne di più: se qualcosa era esistito, doveva trovarsi non lontano dai villaggi dei pastori di Akundjanov. Era quindi probabile che in quella zona il mito fosse più forte che nel resto dell’immenso territorio chiamato in causa dai lettori del nostro articolo.

Con Larson parlammo della possibilità di organizzare una spedizione autofinanziata nel Turgaj. Su questo punto lui fu insolitamente categorico. Mi mostrò varie evidenze di carattere geografico, morfologico, climatologico e via dicendo, che rendevano del tutto privo di speranza un viaggio di esplorazione. La zona era schifosamente inospitale. Prima di tutto, era vero e proprio deserto roccioso. Poi, non ci abitava più nessuno, il che rendeva ardua la soluzione dei più banali aspetti logistici. In terzo luogo, vi faceva un gran freddo d’inverno e un gran caldo d’estate. Da ultimo, probabilmente le autorità kazake non si sarebbero dimostrate entusiaste di lasciar vagare due privati cittadini occidentali in un territorio disabitato e inutile a tutto, ma non a considerazioni strategico-militari.

Era soprattutto la vicinanza con il lago d’Aral e con l’isola di Vozrozhdenie, da tempo candidatasi a diventare penisola, a non poter entusiasmare i kazaki. L’idea che qualcuno potesse curiosare troppo vicino ai presunti depositi sovietici di armi batteriologice dell’isola (che pure sarebbe rimasta buoni 500 chilometri a sud del Turgaj) certo non era una top priority di Astana. La mia esperienza sull’Aral mi diceva che era senz’altro così, senza bisogno di chiedere. Comunque chiedemmo – alle ambasciate di Londra e Roma – ottenendo la risposta prevista: lì non c’è niente da visitare. Da Roma, tra l’altro, i funzionari del consolato, evidentemente resi più frizzanti rispetto ai colleghi londinesi dall’aria mediterranea, ci inviarono dei depliant sulle meraviglie da visitare nel deserto del Moyynqumm, allegando un CD il cui pezzo forte suonava come <I left my heart in Semipalatinsk>. Era un modo cortese di promuovere le bellezze del Kazakstan e al contempo suggerirci di lasciar perdere. L’ultimo dubbio in proposito mi abbandonò ascoltando quella specie di inno a Semipalatinsk: nulla di buono o interessante poteva provenire da una terra in grado di produrre simili orrori. Così abbandonammo l’idea del viaggio.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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