Blender Things

B

Odio le serie tv buttate in vacca.

Esattamente come per Terminator, Stranger Things aveva fatto il botto con la prima serie, aveva avuto un’accettabilissima correzione di rotta con la seconda, e si è buttata al porco con la terza. I ragazzi non devono crescere, anche se è inevitabile lo facciano. Però si può lavorare su questa inevitabilità, che non consista nell’adottare i più vieti e telefonati luoghi comuni di genere. Nel voler a tutti i costi fare un’antologia delle tipicità adolescenziali, Stranger Things-3 non solo diventa un catalogo di banalità irrealisticamente (data l’epoca) politically correct ma crea una galleria di assurdità tenute insieme a stento e con lo spago. Il politically correct, vera e propria pestilenza odierna, impone ragazzine sempre un passo avanti gli stolidi maschietti, l’inclusione contrattuale di qualche gay e più recentemente di una o due lesbiche, un pensiero debole quando non debolissimo a permeare ogni scelta, decisione, azione.

La serie è diventata grottesca nella sua implausibilità, soprattutto visto che è ambientata nel 1984 reaganiano, quello che da noi aveva il riscontro della Milano da bere. Un falso storico a tutti gli effetti. Il completamento del ridicolo si ha introducendo una base russa sotterranea nel paesello, costruita in meno di un anno (e gli sbancamenti? e i materiali?) presidiata da un battaglione di cattivissimi in divisa che girano per il centro commerciale comunicando tranquillamente in russo con i walkie-talkie. Sì certo come no, sotto Reagan e il suo Impero del Male.

Queste stronzate da cartone animato di serie B fanno ancora più male se si pensa al suggerimento con cui si chiudeva la seconda serie: quella visione speculare del mondo-altro che poteva far presagire un terzo capitolo à la King. Invece di riportare tutto e tutti a un qui e ora da luna park di paese, perché invece non precipitarli  in uno spazio ambiguo e intermittente come il SottoSopra? Le citazioni volontarie inserite in ST-3, come la proiezione di Ritorno al futuro, non trovano un seguito negli eventi e nell’ambientazione, che inspiegabilmente vira con piatta determinazione verso la rappresentazione di un’America rurale di cui avevamo già fatto il pieno con i vari horror-movie della nostra giovinezza, e che francamente già allora ci aveva portato a disgustata sazietà. A concludere la farsa, l’inspiegabile marchetta di Neverending Story cantata per intero da due ragazzini semi-stonati, a testimoniare il loro inutilissimo amore nerd mentre il mondo aspetta che finiscano, per essere salvato. Patetico. Peggio: inutile, come tutta la serie.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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