Belfagor

B

Alzi la mano chi, quel 15 giugno 1966, non si è cagato sotto alla prima apparizione di Belfagor, nella buia sala del Louvre che ospita divinità caldee. Ma la alzi anche chi, nato nel 1959, non l’ha visto. Noi andavamo a letto dopo Carosello, tranne il sabato sera. Belfagor era trasmesso di mercoledì, eppure lo vedemmo: questo vi dà l’idea dell’immenso potere intergenerazionale della serie, capace di annullare le inflessibili prescrizioni genitoriali di casa nostra.

In tutte le 4 (o 6, dipende) puntate, Belfagor compare pochissimo. In nessuna dice niente, e pure la sua motilità è limitata. Però ti fa cagare sotto lo stesso. Perché? Sicuramente per la sua figura ieratica, del tutto a-contestuale, misteriosa. Poi perché ha “un modo di stare” diverso, alieno, incongruo. L’abbigliamento monacale, che nasconde tutto ciò che non sai e che vorresti sapere. Il capolavoro della maschera di cuoio, che mostra e non mostra, evidenziando  occhi fissi e labbra pronunciate. Infine, l’abilità di sceneggiatura e regia nel farlo comparire all’improvviso, ma anche senza nessuna fretta, nell’istante giusto. Ho spiegato tutto? Forse, ma non ho spiegato niente. Belfagor è un mix insuperabile di particolari studiati e altri semplicemente indovinati, casuali.

Che abbia colpito duro è evidente: basta scrivere “belfagor 1966” su gugl, e dovete comprarvi uno schermo aggiuntivo per farci stare dentro tutti i riferimenti che il motore vi spara: ne ha più il fantasma che Irina Shayk e Cristiano Ronaldo sorpresi a suo tempo nell’intimità di un dungeon sadomaso.

Ho rivisto la serie televisiva diverse volte: 4-5, nel corso dei decenni. Da un lato sono rimasto sorpreso dall’assurdità/ingenuità di alcuni elementi del plot, come per esempio ‘sto cagacazzi di studentello universitario (André Bellegarde) che s’intrufola dappertutto e mai nessuno che lo prenda a calci in culo. Dall’altra resto ancora stupefatto dall’atmosfera che gli artigiani anni ’60 sono riusciti a creare, rendendo giustamente Belfagor un cult evergreen. Noi, in Italia, eravamo riusciti al massimo a produrre un tenente Sheridan (Ubaldo Lay), che se lo guardi adesso non riesci ad arrivare alla fine dei titoli di testa prima di addormirti.

Eravamo ingenui e suggestionabili? Può darsi, ma il fantasma del Louvre ha paralizzato di terrore, per anni, anche mio figlio, con quel mantello nero e quel naso troppo lungo che bastavano da soli.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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